CARO POLETTI, L'ITALIA NON E' UNA COOP

03.01.2015 00:09


La crisi occupazionale nel nostro Paese ha raggiunto dei livelli tali che qualsiasi intervento di alleggerimento delle tutele o di tardivi e stringenti regimi fiscali agevolati non fornirà l'energia necessaria per bonificare l'attuale palude. Con l'attuale riforma del lavoro si sta costruendo un tavolo a due gambe. Occorre creare le condizioni affinché nascano nuovi imprenditori e non riporre tutta la fiducia in ipotetiche assunzioni di massa da parte delle attuali imprese, spesso stremate dall'eccessivo carico fiscale e dallo sciacallaggio di Equitalia. Gli attuali disoccupati vanno aiutati a diventare imprenditori, ma questo è possibile solo con interventi shock che stimolino la creazione di ricchezza. Le misure annunciate dal Ministro Poletti, e più in generale l'intera agenda di Governo, invece sono figlie di una cultura del secolo scorso e mutuate dal sistema delle cooperative. In certe culture, come quella che tiene in piedi questo Governo, la ricchezza individuale va dissipata, non c'è spazio per la genuina autoimprenditorialità in quanto non c'è spazio per autentiche politiche liberali. La scelta classista degli 80 euro alla vigilia delle ultime elezioni ne è un palese esempio. Non sarà l'abolizione dell'articolo 18 o qualche suo sottoprodotto, quale il contratto a tutele crescenti, né un'ipotetica applicazione della deroga UE relativa al tetto del nuovo Regime dei Minimi a restituire la dignità perduta a coloro che sono e resteranno intrappolati fuori dal mercato del lavoro. Il tema del lavoro è affrontato ancora con un approccio ottocentesco e attraverso un mix di scelte discriminatorie. Mentre oltre il 46% dei giovani non trova un'occupazione e gli over 50 vengono esplulsi dal mercato del lavoro, si discute ancora sulla modifica di un articolo di legge targata Cartagine. Limitarsi a discutere sull'utilità o meno dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non migliorerà le sorti di quanti sono fuori dal mercato. Inoltre già nel 2012 la riforma Fornero ha rimosso le rigidità contenute nell'articolo incriminato. Le posizioni contrapposte sull'articolo 18 sono emblematiche della totale assenza di visione che caratterizza gli attuali inquilini del Palazzo. Gli opposti estremismi rientrano soltanto in una vecchia e mai conclusa guerra tra vecchi leoni ormai senza denti e dalla criniera spennacchiata alla ricerca di una rivincita. Insomma tra coloro che fanno per professione gli addetti al lavoro senza aver dovuto mai lavorare. Il dibattito in merito all'articolo 18 è anacronistico quanto il contenuto dello stesso articolo di legge. I contratti di lavoro a tempo indeterminato nel 2014 rappresentano appena il 18% del totale e il Jobs Act del ministro Poletti introduce il "contratto a tempo indeterminato a protezione crescente" che elimina di fatto l’articolo 18 per i potenziali neo assunti. Ma è sui titolari di partita IVA che si consuma l'arretratezza culturale e si materializzano i pregiudizi ideologici di questo Governo. Non è un caso infatti che il nostro Paese non abbia ancora applicato la Decisione del Consiglio europeo che in deroga all’articolo 285 della direttiva 2006/112/CE,  autorizza l'Italia a esentare dall’IVA i soggetti passivi il cui volume d’affari annuo non supera i 65 000 EUR. Insomma dal 1 gennaio 2014 il Governo avrebbe potuto, con tanto di placet europeo,  dare un po' di ossigeno alle partite IVA  raddoppiando il tetto per l'accesso al Regime dei Minimi attualmente fermo a 30 mila euro. Comunque vada e al di la del volume d'affari, il Regime dei Minimi, sebbene sulla carta si rivolge alle nuove iniziative imprenditoriali, non contiene nessuna agevolazione atta a sviluppare una neo impresa. Chi accede al regime de minimi non può assumere, non può superare volume affari di 30 mila euro, non può acquistare beni strumentali per oltre 15 mila euro. Il messaggio che arriva a chi ha l'ardire di intraprendere è, per usare un eufemismo, evidentemente poco incoraggiante. Ma è sulle classiche partite Iva che si consuma la vera ingiustizia sociale e fiscale. Superati i 30 mila euro di reddito infatti l'Irpef sale al 23% e l'Inps al 28 (sempre che non entri in vigore la riforma Fornero altrimenti l'aliquota contributiva salta al 33%). Alla pressione fiscale occorre aggiungere gli acconti sulle tasse dell'anno successivo e il costo per la tenuta dei conti. Anziché promettere miserabili mance travestite da bonus è sufficiente guardare cosa accade a due ore di aereo dall'Italia per comprendere quale sia la strada da intraprendere. Per consentire ad un lavoratore di generare ricchezza occorre semplificare! In Inghilterra lo hanno capito da tempo. L'obbligo di partita IVA scatta dopo un volume di affari di ben 70 mila sterline, da noi questo obbligo è fissato alla ridicola soglia di 5000 euro! Altro che regime dei minimi, il problema si risolve alla radice portando la soglia dell'obbligo di tenuta della partita Iva a cifre simili a quelle inglesi. Infatti se negli anni passati la partita IVA ha rappresentato un valido rimedio, e spesso un rifugio,  per non restare totalmente esclusi dal mercato del lavoro, oggi la situazione è radicalmente cambiata e a questo regime fiscale è stato per troppo tempo attribuito impropriamente una funzione contrattuale.

 

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